Crossover totale
Quando adolescente intorno ai diciassette anni uscii dalla sala cinematografica dove avevo appena visto Alien non riuscivo a capire perché quel film mi fosse piaciuto così tanto, perché mi avesse sconvolto, non tanto per la ferocia mostruosa dell’alieno e la tensione che ne derivava, ma un per qualcosa che non riuscivo a individuare, a mettere bene a fuoco. Ma è un horror o è di fantascienza? Chi chiedevamo noi amichetti appassionati. Gli schieramenti erano netti e prevaleva il partito della fantascienza. Magari qualcuno ardito avrà anche detto che si trattava di un fantahorror. Ma non me lo ricordo. La stessa cosa andò a ripetersi più avanti nel corso degli anni in più occasioni fino alla rivelazione, all’illuminazione scatenata da Blade Runner. Anche qui il solito di battito. Ma è un hard boiler o è fantascienza. La mia amica arguta, divoratrice dei romanzi di Chandler e Hammett, con la un debole per il secondo, sosteneva che senza dubbio sera un hard boiled ambientato nel futuro, gli altri che essendo tratto da un romanzo breve di Philip K. Dick non poteva che essere fantascienza. A me era piaciuto e basta tant’è che ero stato incollato alla poltrona del cinema per due spettacoli di fila. Blade Runner per un po’ divenne l’ossessione dominante. Da giovane fumettista immaginavo di fare un fumetto con quelle atmosfere decisamente noir. A forza di fantasticare senza costrutto (non ho mai disegnato un hard boiled) cominciai a fare collegamenti tra cose lette e cose viste per arrivare allo sceneggiato degli sceneggiati, Il Segno del comando che mi aveva stregato da bambino e che avrebbe segnato il mio immaginario per sempre. Era un giallo? Una spy story? Un gotico moderno? Un romance? Di sicuro Giuseppe D’Agata che l’aveva scritto aveva applicato per il finale la regola del fantastico codificata da Cvetan Todorov. L’esitazione di fronte all’abisso.
Senza saperlo ero rimasto folgorato da un concetto che ormai giovanotto avrei sentito fino alla nausea frequentando negli anni ’80 i corsi del DAMS.
Contaminazione, vasi comunicanti, alto-basso. Ripetuti come un mantra sacro. La via naturale da seguire. Insomma le basi del postmoderno.
Di fatto mi sono formato in questo amalgama culturale dove per noi ragazzi fuorisere di belle speranze era assolutamente normale mischiare le carte, unire punti distanti, rivisitare la storia riproponendola in chiave eccentrica. Scarponi da operaio mancuniano, jeans strappati con camicia gonfia di pizzi e sopra cappottone lungo fino ai piedi in dotazione dei postini asburgici. Eravamo anche questo.
E questa buffoneria divertita e divertente, a tratti dirompente, affiorava anche nei fumetti, i primi che pubblicavo e quelli degli autori che amavo. Riferimenti alla pittura, riferimenti alla musica, al cinema, alla narrativa, alla moda affollavano le pagine disegnate. Ogni giorno era una sperimentazione continua. Da questi incontri arditi sono nati le sperimentazioni folgoranti del gruppo Valvoline, la rivista “Frigidaire”, l’unica davvero generazionale e irripetibile, “Alter Linus” e più tardi, quasi alla fine della corsa, la splendida, addirittura regale, “Dolcevita”. Menzione a parte va a “Orient Express” rivista creata da Luigi Bernardi dove l’altobasso e la narrativa di genere incontrano quella d’autore.
Nello stesso periodo, mentre scoprivo il cyberpunk e leggevo per la prima volta Neuromante di William Gibson, scoprivo anche una band di Hollywood che unisce il funky all’heavy metal, il rap alle ballate, i Red Hot Chili Peppers inauguravano la stagione del crossover, termine che in poco tempo evade dai confini musicali per espandersi ovunque possibile.
Non ci vuole nemmeno tanto sforzo per capire cosa avessero in comune Alien, Il segno del comando, Blade Runner e tante altre narrazioni: di fatto erano esempi di crossover tra generei narrativi diversi, con regole consolidate che improvvisamente erano andate a infrangersi, ad accartocciarsi rompendosi per poi fondersi di nuovo in qualcosa di nuovo.
Un po’ come applicare sul campo certi passaggi de La mostra delle atrocità saggio narrativo di James Graham Ballard e a seguire Crash. La carne che si fonde al metallo, l’erotismo dei tessuti cicatriziali, l’annuncio del man machine, del cyborg, dell’arrivo dei Borg. La fine della purezza inutile per lasciare il passo all’inarrestabile avanzata dell’era dei tempi globalizzati. Il meticciato letterario mi affascina, è la strada che mi ammalia, quella che ti consente di mischiare le carte, di contraddire, rinnegare e rilanciare. Una boccata d’ossigeno.
Di fatto sono tanti i romanzi che oltrepassano i confini del canone del genere. Per noia, per desiderio di esplorare, perché ci si è arrivati per caso. Vorrei trovarne sempre di più, vorrei che gli autori si lasciassero trasportare con coraggio in queste direzioni impensabili e inaspettate. Vorrei che facessero altrettanto editor, editori e uffici marketing. Coraggio è una parola nobilissima, non meno del suo significato. Coraggio. Ogni volta che scopro autori iscritti a questo club esclusivo gioisco.
Per questo ho amato e amo i cicli di Eymerich e di Pantera del mai compianto abbastanza Valerio Evangelisti, per questo sono rimasto estasiato immerso nella lettura di La città e la città di China Mielville, per questo ricordo come esaltante il periodo in cui lavoravamo alla rivista “Cyborg” diretta da Daniele Brolli, dove non c’erano limiti di incontro tra fili narrativi più disparati e apparentemente lontani. La redazione era un porto di mare dove circolavano davvero le idee.
Il crossover porta in dote regole autoctone che necessariamente devono dialogare. A volte nascono contrasti, anche forti, ma mai insanabili. Quando riesce la magia si creano giochi di intrecci irresistibili. L’uomo di fumo di Steven Pierce lo scoperto per caso. Mi era piaciuta la copertina e che una parte della storia fosse ambientata a Porth Elizabeth. Un acquisto al buio ben ripagato. Nelle sue oltre ottocento pagine attraversa il mistery, il romanzo storico, il giallo, l’introspezione con il feuilleton, spiazza perché eretico e soprattutto digressivo come lo erano i romanzi d’appendici pubblicati a puntate sui quotidiani della metà dell’800. A molti appassionati del giallo puro non è piaciuto perché non arriva mai al punto. Il classico esempio di viaggio per il viaggio. Ma poi arriva anche al punto.
Parente stretto del crossover è il weird che in francese suona con grande fascino come fait-divers e in italiano con il tristissimo “strano” o peggio “particolare” o goffo “bizzarro”. A suo modo comunque un crossover.
Nel weird confluisce tutto ciò che sfugge alle regole dei canoni dei generi, è sempre un po’ questo un po’ quello. Sesso in libreria viene inserito nell’horror ma non è horror. È piuttosto una Tortuga letteraria, dove l’anarchia convive con la frontiera. Tutto ciò che diventa difficile da etichettare, da incanalare diventa weird. Se Kafka scrivesse adesso sarebbe inghiottito dal weird di sicuro, sarebbe il re con tanto di fascetta ad avvolgere la copertina del suo nuovo bestseller, ma non sarebbe solo, L’Horla di Maupassant gli farebbe compagnia come L’altra parte di Alfred Kubin e quel gioiello per pochi intimi che è Malpertuis di Jean Ray, creatore anche di Harry Dickson serie gialla anche questa molto weird che di recente è tornata alla ribalta in una bella versione a fumetti firmata Luana Vergari, Doug headline e Onofrio Catacchio. Ovviamente anche Buzzati è weird. E che dire di Shirley Jackson, crudele e disarmante come poche. A dire il vero quasi tutto può essere weird. È il non genere del genere. E per questo lo amo. Per la sua libertà suprema di essere svincolato da obblighi strutturali e di potere maramaldeggiare impunito tra un genere e l’altro. Di sicuro il weird in tutta la sua obliquità è in perfetta sintonia con un presente sempre più traballante, carico di incertezze, in bilico tra assurdo e tragico. Mi stupisco che sia ancora così poco frequentato qui da noi. Eppure Black Mirror h fatto scuola. Ma tant’è.
Spesso la narrativa di genere si è fatta carico del pesante fardello dell’indagine della contemporaneità. Specialmente attraverso il giallo, attraverso il noir o il crime che sono diventati grimaldelli per raccontare disagi sociali, malaffari, inquietudini, angosce. Essendo per lungo tempo relegate in serie B hanno avuto mani libere per raccontare l’irraccontabile e il pubblico l’ha capito.
Oppure attraverso la fantascienza, purtroppo sempre troppo poco praticata in suolo italico, farsi carico del ruolo di precursori, profeti solitari che anticipavano problematiche di massa, derive sociali. Tant’è che la distopia, oggi ormai affiancata se non superata dalla realtà contingente, è a tutti gli effetti un sottogenere molto amato. Immaginarsi un mondo peggiore è un formidabile antidoto e pure esorcismo per quello che ci potrebbe aspettare.
A mio parere il genere in linea di massima gode di un’ottima salute. Proprio per questo corre il rischio di trasformarsi in un carrozzone di maniera, piallato ed edulcorato dal tritacarne mediatico del mercato. È importante perciò tenere il punto e guardare al futuro, a partire da quello immediato, verso un mondo in netta regressione sociale, con sterzate verso sistemi più o meno autoritari, dove la parola guerra è argomento quotidiano, fatto quotidiano, dove si parla con insistenza di un ritorno al servizio militare obbligatorio, dove si sperimentano metodi di esecuzione capitali che nemmeno i veterani userebbero per sopprimere gola nomali malati, e mi fermo qui perché altrimenti sarebbe una litania.
Cambieranno gli scenari, ma non i ruoli. Avremo altre indagini, altri omicidi. Ci saranno protagonisti aderenti alla realtà che stiamo vivendo. Più poliziotti figli di immigrati, un incremento deciso di investigatrici e investigatori della comunità LGBTQ, pensionati che vogliono continuare a dare un senso alle loro esistenze, senza tetto che diventano giustizieri della notte. È sempre stato così: è la realtà a creare i personaggi e a determinare le trame.
Starà a noi scrittori riuscire a intercettare questi flussi, questa elettricità vagante che ci circonda avvolgendoci. Resteremo folgorati ma anche corroborati. Ancora una volta il genere sarà un ponte indispensabile. Poco importa se precario o sospeso nel vuoto. Come tutto del resto.
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